La valutazione delle prestazioni del personale è uno dei passaggi meno graditi della vita organizzativa.
Erroneamente si ritiene che tale giudizio provenga dalle persone sottoposte a valutazione.
In realtà, almeno sulla base delle esperienze di consulenza da me condotte nell’arco di due decenni, la valutazioni delle prestazioni e, soprattutto, la conduzione del colloquio di valutazione[1] è un’attività particolarmente sgradita al valutatore.
Per quanto possa sembrare paradossale, è il valutatore a sentirsi in una situazione di maggiore difficoltà emotiva, soprattutto se pensa di dover dare dei feedback negativi: è spiacevole dire a un collaboratore che non lavora come ci si aspetterebbe, si temono le sue reazioni emotive (la rabbia, così come la delusione o il dispiacere), si teme infine di generare un conflitto che comprometterà la possibilità di continuare a lavorare in futuro.
Chi valuta spesso tende a proteggersi da questa esperienza sgradevole semplicemente evitandola: “…La valutazione non serve… I miei collaboratori sanno che non li valuto e così sono più tranquilli…!”.
In altri casi, assai frequenti, i valutatori ricorrono a una tecnica di evitamento più sottile: svuotano la valutazione dei suoi reali contenuti, rendendola poco più di una formalità, un rituale organizzativo da sbrigare il più in fretta possibile: “I miei collaboratori ricevono una valutazione che è uguale per tutti. Non c’è neanche il bisogno di comunicarla perché la conoscono già!.
Inutile dire che la valutazione delle prestazioni, condotta in questi modi, non è di nessuna utilità e finisce per rivelarsi controproducente. Continua a leggere